Collegio Nazionale Capitani

Navi di amianto e i silenzi della politica

Articolo di mercoledì 25 ottobre 2017



Collegio Capitani

Almeno 600 morti, e un processo finito in prescrizione. Il silenzio dei ministri, l’assenza in aula degli ammiragli imputati nei processi. La richiesta di giustizia degli ammalati o morti a causa dell’amianto a bordo (e il conteggio non è ancora terminato, il picco è previsto nel 2020) e dall’altra parte il silenzio e le mezze verità dei ministri della Difesa, i dati vaghi e la mancanza di chiarezza nella vicenda.

Nessuna parola in parlamento, nessuno che abbia parlato dell’amianto a bordo delle navi italiane e del suo lento smaltimento, nonostante la tossicità della fibra fosse ben conosciuta sin dal 1967. Come se questa battaglia non esistesse.


La riportano a galla Lino Lava e Giuseppe Pietrobelli con il libro inchiesta “Navi di amianto” (Otre edizioni, 247 pagine 16 euro), dove vengono raccontati tutti i silenzi della Marina militare dinanzi alle morti di lavoratori innocenti. Persino l’Inps si rifiuta di riconoscere i risarcimenti a chi si è ammalato dal 1995 in poi.


Lo Stato in tutto questo è stato vago e assente, per 13 anni anni ha preso pigramente e burocraticamente tempo, lasciando navigare le navi contaminate, come svela una mappatura del Registro Navale italiano del 2008, pubblicata per la prima volta nel libro.

Un silenzio di stato interrotto solo nel 2011 grazie a due interrogazioni parlamentari, durante le quali La Russa ha fornito spiegazioni molto vaghe. Non si sa quanto amianto sia ancora presente sulle navi, non si sa quanto ne sia già stato rimosso, e non si conoscono tempi e costi per la totale bonifica della flotta.


L’anno dopo è invece Di Paola a essere interrogato, spinto dai Radicali. E quindi si scopre che solo il 20% delle unità navali era stato completamente bonificato, e dal 44% delle altre era stato rimosso parzialmente. Si parla di una situazione dove nel 2012 otto navi su dieci navigavano ancora con amianto a bordo.


Ma neanche Roberta Pinotti è stata limpida. Quando si cercano, purtroppo le risposte sono sempre le stesse: “La Marina non ha più impiegato materiali contenenti amianto e, dal 1992, tutte le unità navali sono state costruite e messe in servizio con la certificazione amianto free”. Affermazione smentita nel libro “Navi di amianto”, da decine di testimonianze e dalle carte dell’inchiesta.


Nel frattempo, sono passati 13 anni da quando Giovanni Baglivo ha per la prima volta cominciato a raccontare delle condizioni di lavoro nelle navi e dei rischi che correvano gli uomini a bordo. Il suo racconto, tratto da Navi di Amianto.



Estratto del libro “Navi di Amianto” di Lino Lava e Giuseppe Pietrobelli

Il destino ormai quasi compiuto è, invece, il letto d’ospedale dove giace l’ex sottufficiale Giovanni Baglivo, tecnico di macchina e meccanico di macchina a vapore sulle navi della Marina Militare. È il 5 agosto 2004, da appena una settimana è stato operato per mesotelioma pleurico, un male che non lascia scampo. Il registratore tascabile Olimpus Pearlcorder L200, in dotazione alla Procura della Repubblica di Padova, è acceso sul comodino. Fatica a respirare e a parlare, il militare pugliese di Tricase venuto a curarsi in Veneto, dove gli hanno tolto una parte del polmone destro. Sopravviverà soltanto fino al 4 settembre 2005. «Sembrava un condannato a morte» ricorda, molti anni dopo, Omero Negrisolo, uno degli ufficiali di polizia giudiziaria che ne hanno ascoltato il drammatico racconto. È il primo marinaio ammalatosi per l’amianto a mettere in un verbale, a futura memoria, le condizioni di lavoro nelle navi, il rischio a cui gli inconsapevoli equipaggi erano sottoposti.

È una fotografia in bianco e nero della faccia nascosta della Marina Militare. Ciò che nessuno si aspettava, scoperta dissacrante del trattamento riservato ai fedeli servitori del tricolore nel regno della fatica e del sudore, senza regole né rispetto per la salute. Trattati come viaggiatori all’inferno senza biglietto di ritorno. Non ci sono sorrisi, brindisi alla vita e alla giovinezza, in questa istantanea senza speranza. C’è solo il rantolo di un uomo malato e stanco. «Io stavo in sala caldaie dove c’è una temperatura ambientale all’incirca di 40-50 gradi e una temperatura della caldaia diciamo di 450 gradi e una pressione di 50… Lascio immaginare che protezione avevano i tubi che conducevano questo tipo di vapore. In locale motrice arrivava lo stesso vapore con la stessa temperatura e con la stessa pressione, altrimenti non si poteva navigare. I primi 7-8 anni le guardie si facevano solo ed esclusivamente nel locale caldaie. Noi dovevamo stare lì sotto estate e inverno».

Allora l’amianto era vissuto come una risorsa, non come una dannazione. «Siccome c’era parecchio caldo ci dovevamo spogliare, lavoravamo a braccia scoperte e senza nessun tipo di maschera, anzi io ho lavorato pure sulle testate di vapore della nave Impavido, che si trovano sotto la scaletta in motrice di prora…». L’immagine sembra provenire da un altro mondo, neppure troppo lontano visto che quel cacciatorpediniere è stato radiato nel 1991. «Un giorno era saltata una ‘dialico’, la guarnizione di vapore, e ha cominciato a fuoriuscire del vapore, che ha saturato quasi tutta la nave di caldo. Si doveva per forza intervenire. E io ho tolto via esattamente mezzo quintale di amianto per poter sostituire la ‘dialico’… stavo con una mazzetta da 12 chili, da 15 chili, una chiave da 48. Stavo a slip… a scarponciini, a slip a lavorare così, senza nessun tipo di protezione».

Evento imprevedibile, si potrebbe pensare. Invece, anche la routine era pericolo diffuso. «Le tubazioni erano chilometri, arrivavano in tutta la nave, pure dove si dormiva, con queste coperture di amianto o di quelle cose lì… pure nei camerini, nei bagni, dappertutto c’era questa cosa”. Amianto, un nemico invisibile. E neppure annunciato. “Non ci hanno mai allertato in tal senso. Mai. Io non ho mai saputo. Adesso lo sto sapendo, perché sto passando le conseguenze… Ci hanno mandati allo sbaraglio».

Così sono stati ridotti quei bravi ragazzi, incapaci di difendersi da un’entità ostile di cui neppure conoscevano l’esistenza. Ma il tempo trascorso non induca alla sottovalutazione o al rilassamento delle coscienze di fronte a una malattia indotta da cause tecnico-ambientali, che qualcuno vorrebbe incolpevole figlia dei suoi tempi. I magistrati padovani non lo hanno fatto. Il pubblico ministero militare Sergio Dini ha aperto la prima inchiesta per la morte da mesotelioma pleurico sinistro di tipo epiteliale, avvenuta il 3 febbraio 2002, del puntatore cannoniere Giuseppe Calabrò. Il sostituto Emma Ferrero ne ha avviata una seconda, in Procura ordinaria, anche per il decesso di Baglivo del 2005. Da quelle istruttorie è nato il processo “Marina Uno”, primo tentativo di squarciare il velo sugli omicidi colposi che per decenni si sono consumati sulle navi della Marina italiana a causa dell’amianto e della mancata osservanza delle regole di tutela da parte degli ammiragli, alias datori di lavoro dei marinai. Il processo in Tribunale si è concluso con l’assoluzione, l’appello con la prescrizione dei reati. Ma il ping-pong della Cassazione ha rimandato tutto indietro, con la conferma della prescrizione. Giustizia per il codice, giustizia negata per chi sta morendo.


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